Guai a illuminarsi d’incenso

Roberto Beccantini10 settembre 2016

Con il lessico casto che suggeriscono le cicatrici del Sassuolo, presentatosi senza Berardi, Cannavaro, Defrel e Sensi, confesso di aver ricevuto un messaggio da un paziente interista: «Grande Juve». Come non appropriarsi di un simile slogan, di un simile stato d’animo?

Dopo la prima mezz’ora, tra parentesi, ho pensato che sarebbe finita proprio come Sassuolo-Inter del 22 settembre 2013 (zero a sette) o Inter-Sassuolo del 14 settembre 2014 (sette a zero). Se è finita «solo» tre a uno è stato perché Buffon, superbo in avvio su Politano, ha poi pasticciato su Antei, e perché il movimento «cinque stelle» (Higuain, Dybala, Pjanic, Khedira, Bonucci) molto ha prodotto e molto gli è stato murato dalle Raggi di turno: Consigli e Acerbi.

Allegri, certo. E anche per merito del medesimo. E’ così che bisogna giocare in Europa, a tavoletta, in verticale, riducendo i ninnoli e moltiplicando le occasioni. Eccolo, Higuain: diagonale e girata. Eccolo, Pjanic: non regista ma mezzala a tutto campo. E rieccolo, Dybala: sempre più sivorizzato, sempre più dentro la squadra anche se ancora in bianco. L’autotunnel sulla linea di fondo, con cui ha spedito al bar l’avversario, mi ha strappato dalla sedia.

Veniva, la partita, dopo i girotondi delle Nazionali e prima degli impegni delle coppe. Di Francesco non ha mai rinunciato a giocare. Spesso gli è stato impedito, ma questo è un altro discorso. La Juventus non mi è piaciuta sugli angoli e nei rammendi difensivi. La «parata» più brillante l’ha compiuta Lichtsteiner, agli sgoccioli. Occhio.

Mercoledì, il Siviglia. In Champions serve allargare la mezz’ora d’avvio: pensare veloce senza scalfire la precisione dell’idea, del passaggio, del tiro. E guai a illuminarsi d’incenso.

Khedire?

Roberto Beccantini27 agosto 2016

Il caldo, d’accordo, con tanto di time-out refrigerante. E il fatto che il calcio d’agosto è un calcio un po’ così, stravagante più che seducente, un’officina presa per una pista: d’accordo anche su questo.

Valeva per la Lazio, valeva per la Juventus. Ecco (anche) perché la partita è stata un noioso sudario. La Juventus era lontana, lontanissima, dalla Juventus che per un tempo, di sera, aveva spaventato la Fiorentina. Simone Inzaghi, in compenso, era passato alla difesa a tre, o a cinque in base alle esigenze, la qual cosa depone a favore del suo realismo. Dieci minuti di bollicine e poi un’attesa paziente, mirata. De Vrij controllava il traffico ai valichi, Bastos e il fratello di Lukaku mordevano i rari turisti. Con Felipe Anderson e Lulic sgommanti e invocanti cartucce.

Molti gli errori di misura. Troppi. Allegri è un cacciatore di qualità. A suo modo, con quell’aria non certo paragonabile al fanatismo di Conte (a proposito: che bello, il suo Chelsea odierno): a volte non lo capiamo, a volte non si fa capire.

L’assenza di Bonucci e di Pjanic ha tolto idee e precisione all’impostazione, affidata alle piroette di Dani Alves e al nomadismo, non sempre sincronizzato, di Khedira, Lemina e Asamoah. Al punto che, lo avrete notato, toccava a Dybala arretrare per accendere la luce. Con il risultato, spesso, di lasciare al buio Mandzukic.

Poi, è chiaro, la Juventus è la Juventus (in Italia). Ha spolverato l’argenteria, ha profittato del calo laziale, ha mandato in gol quel Khedira che, già a segno con i viola, sa inserirsi come pochi. Higuain era appena entrato. La sua dieta continua. A margine, ma non troppo, mi sono piaciuti Bastos e Benatia. Sei punti a zero: al Bar Zagli avrebbero brindato ma, per ovvi motivi, non l’hanno fatto. Italia forza.

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L’esame d’immaturità

Roberto Beccantini23 agosto 2016

Questa, poi. Avevo avvertito l’amico Fabio, romanista della Bovisa, che non sarebbe stata una passeggiata ma, giuro, mai avrei pensato a una disfatta di queste proporzioni. Altro non ha fatto, il Porto, che raccogliere i frutti dell’immaturità della Roma. Un espulso all’andata (Vermaelen), al culmine di un dominio che alla squadra di Spalletti avrebbe dovuto garantire ben più dell’autogol di Felipe, e due, ripeto: due, in un Olimpico di ghiaccio.

De Rossi, il capitano, Emerson Palmieri: entrate a martello, violente, da rosso diretto. Alibi, zero. Bavagli, per carità. Non è la prima volta, in Europa, che la Roma si butta via. Se il Bayern del 7-1 era troppo forte e il Barcellona del 6-1 di un altro pianeta, lo 0-0 casalingo con il Bate Borisov, che pure spalancò gli ottavi dell’ultima edizione, venne messo in conto alla linea morbida di Garcia. Viceversa, era qualcosa di più profondo, di più endemico.

Aggrapparsi alle emergenze renderebbe ancora più complicata la terapia. Già in avvio c’era solo il Porto, subito a segno con Felipe. E’ bastato un modico torello per disarmare una Roma inaffidabile, salvo Nainggolan e Strootman. Società, allenatore e giocatori dovranno interrogarsi. Non credo che c’entri, o basti, il mercato. Sarebbe stato sufficiente lo 0-0, mai dimenticarlo: anche se non escludo che sia stato proprio questo – con i calcoli che, come una tenera mamma, offriva alla prole – a contribuire a un impatto così molle, a una crociera così imbelle.

Naturalmente, il riscaldamento di Totti accenderà fior di dibattiti (solo al Circo Massimo, però). Naturalmente, negheremo di aver celebrato il 4-0 all’Udinese come se fosse stato inferto al Real. Siamo fatti così. Uscire dalla Champions in questo modo, per zero a tre in casa con il Porto, non è un colpo basso del destino: è una fotografia presa dall’album di famiglia.